Perché la comunicazione del vino non funziona? Tre possibili risposte

Agosto è per molti tempo di ferie, si spera lontane da qualsivoglia tipo di schermo, ma anche per chi resta a casa sono giorni più pigri degli altri. Giorni soprattutto di letture. Tra i molti articoli letti recentemente, uno che vale la pena segnalare è sicuramente quello della nostra amica Reka Haros: "Why wine communication sucks" ("Perché la comunicazione del vino fa schifo?"), un tema sul quale non si stanca di insistere (a ragione) da quando la conosciamo, cioè da anni. Segno che la situazione nel tempo non è cambiata e non da' segni di voler cambiare.

In generale, la comunicazione del vino (continua a) fa(re) schifo. Quella di altre bevande invece, birra in primis, funziona molto di più. Nel suo pezzo su The Buyer, Reka elenca una serie di motivi per cui la comunicazione del vino, in Italia e fuori, in genere non funziona: autoreferenzialità, ossessione per l'educazione, focalizzazione solo sul prodotto (e non su chi lo consuma)... e potremmo proseguire. Ciò premesso, se si vuole uscire da queste sabbie mobili, occorre chiedersi il perché di queste scelte/modalità comunicative. Proviamo ad azzardare qualche ipotesi, in base alla nostra esperienza nel mondo della consulenza.

1) Resistenza al cambiamento. Per la maggior parte dei produttori, avventurarsi fuori dal triangolo magico (tradizione-passione-qualità) è una follia, un non-senso. Il vino è tradizione ("la nostra famiglia coltiva queste terre dal lontano..."), è sempre e solo passione (guai a parlar di business, passione e soldi sono come il diavolo e l'acqua santa), è qualità del lavoro e della materia prima, ergo qualità del vino... E su questi (ormai) abusati luoghi comuni cercano di costruire una narrazione (storytelling) che abbia un briciolo di di appeal, col risultato che, salvo qualche sporadico caso, il risultato finale sa tanto di dejà vu. Copia-incolla. Interesse zero, yawn tanti.
Perché non provare, per una volta, a comunicare in maniera diversa? A far entrare il prodotto-vino dalla finestra dell'immaginario, o dalla cappa del camino - insomma, da vie traverse, inaspettate e perfino spiazzanti, come ha fatto Jaegermeister con questo spot - invece che dalla solita, scontata, noiosa porta d'ingresso?
Ma l'idea di uscire dalla loro comfort zone del triangolo magico, quando non li spaventa, li lascia comunque insoddisfatti: se fossero dei consumatori, siffatte soluzioni, o proposte di comunicazione, a loro non piacerebbero. E questo ci porta alla seconda ipotesi:

2) Corto-circuito mentale. Probabilmente non se ne rendono conto, ma anche quando si sforzano di mettersi nei panni degli altri, in realtà i produttori continuano a rivolgersi a se stessi, forse nella convinzione che chi beve vino, per il semplice fatto di berlo, ha gusti, necessità e curiosità simili alle loro. La realtà è diversa:  un sito web, un'etichetta, uno spot... non devono necessariamente piacere a chi li ha commissionati e li paga: devono piacere al pubblico cui si rivolgono. A patto di sapere a quale pubblico ci si rivolge, ovviamente, considerazione che ci conduce dritti alla terza ipotesi:

3) Non-conoscenza dei fruitori finali. Il consumatore-tipo non esiste. Esistono i consumatori, appartengono a tante tribù (specie, classi, livelli, gruppi, chiamateli come volete) e sono tutte diverse. Per quanto non sia facile individuare quelle che amano il nostro vino, tuttavia è possibile, grazie al web: serve qualche strumento ad hoc, un po' di perseveranza e un po' di studio e si riesce ad avere un'idea abbastanza precisa di quelli che sono i nostri consumatori finali di riferimento.
Fatto questo, si potrà passare alla fase 2: una comunicazione progettata e realizzata in funzione di ciascuno tipo di pubblico-consumatore. Un lavoro chirurgico che richiede sicuramente tempo, molta creatività (thinking out the box) e qualche soldo di spesa (il costo zero non esiste, nemmeno nel mondo del web). Il tutto senza pretendere d'insegnare qualcosa: tra un party in piscina e una lezione di storia, ci sono ottime probabilità che la gente preferisca il primo alla seconda. Chi produce birra o altre bevande questa cosa l'ha intuita da tempo, per questo adotta uno stile comunicativo che è spesso l'equivalente di un invito a una festa

Si potrebbe chiudere qui, ma aggiungiamo un'altra domanda, a quelle poste da Reka in calce al suo articolo:

"perché un consumatore dovrebbe scegliere di bere il vino di quella cantina piuttosto che quello di un'altra?"

Qual'è l'UVP* di quella azienda? E' una domanda che facciamo spesso ai produttori che ci contattano per una consulenza. 

Una domanda alla quale, altrettanto spesso, non sanno rispondere nemmeno loro... 

*UVP unique value proposition. Ciò che rende un'azienda originale, unica, diversa dalle altre.